lunedì 14 gennaio 2013

"La libertà non è star sopra un albero"

Succede a volte, che ti fermi a pensare a cose che avevi tralasciato solo quando qualcun altro le ha fatte.
Oggi la prima delle mie due sorelle, quella istruita completamente, spicca il volo.
Ha lasciato un biglietto che ho visto solo tramite il solito socialnè, l'ha lasciato a mia mamma e alla seconda delle mie sorelle, perchè si trasferiva, cambio casa, cambio vita.

Ho ripensato a quando è successo a me, al fatto che non ho lasciato nessun biglietto, nessuna frase per farmi ricordare, tanta era la smania di andare via, e non perchè ci stessi male, anzi, ma perchè lo volevo troppo, lo volevo da anni, forse da tutta la vita.

Ricordo solo le facce di Annagi, che come al solito non parlava, per non condizionare, non strafare, non suggerire. Mi lasciava solo essere, qualcosa che ha sempre saputo fare.
Mi sono sentita un pò ingrata, a vedere che lei gli aveva lasciato un biglietto che io non ho lasciato.
E non una volta, ma due.
Io, la prima figlia.
Io, quella che ha mollato tutto nel giro di un mese, per due volte nello stesso modo, con quella smania di andare via, chissà dove, in un paese di 50.000 persone che è anche più triste di Selvino, in certi nodi.

Ma odorava di libertà.

Libertà dalla montagna che ti separa dalla vita. Da un supermercato, da una birra in un pub.
Dalla possibilità di scegliere.
Chissenefrega di cosa fai, puoi anche abbandonarti sul divano tutta la sera, ma lo decidi tu.
Non lo decidono trenta tornanti di cui conosco a memoria angolature, punti bui, larghezze.

Insomma, io quel biglietto non l'ho mai scritto, e mi dispiace.
Perchè so che Annagi l'avrebbe meritato, ma la mia smania di partire me l'ha fatto dimenticare, tralasciare, sminuire.
So che le avrebbe dato più conforto, più presenza, meno mancanza, l'avrebbe fatta un pò ridere e un pò piangere.

E io non gliel'ho scritto. Ho sottovalutato un sentimento che forse mi capiterà di provare.
E chissà se sarò capace di essere come lei. Di non prendermela per un biglietto non scritto.
Di vedere un figlio andare via senza mai cercare di deviarne l'idea.

Di assecondarne la libertà.



giovedì 20 dicembre 2012

(and I feel fine)

Vi sentite bene? Come state? E' la fine del mondo per come lo conosciamo.
Ma voi vi siete chiesti veramente: ma a che ora è esattamente la fine del mondo?
Intendo: mattino? Pomeriggio? Cena? Vi coglierà nel sonno? Al lavoro? Da soli o in compagnia? E poi, LT o GMT?

Io ci ho pensato, e per non sbagliare, voglio pensare che arriverà per le 12.37 LT.
A quell'ora, da due venerdi a questa parte, io mi trovo in piscina.
Perchè alle 12.45 comincia il corso di acquabike a cui mi sono iscritta -con vaghissima reticenza- a causa della solita A.

Alle 12.37 sono nel peggiore degli outfit mai testati in vita mia.
Ho un costume verde fango intero sformato -chi mi deve fare un regalo qui trova un'idea, maya permettendo-.
Ho una cuffia lilla con codino che spunta sotto.
Non ho trucchi sulle impurità.
Ho un accappatoio rosa acceso che devo togliere di fronte a TUTTA la piscina.

Ho due calzini bianchi ai piedi, alle 12.37.

Per non scivolare sui pedali della bici, dentro l'acqua. Poco importa se durante la prima lezione sono stata l'unica a far girare completamente la bici di 180°. Non a mano. Stavo solo pedalando.

Ecco, io vorrei arrivasse lì. A quel minuto prima di dover impostare l'altezza della sella. Prima di dover spingere la bici in acqua, privata della mia dignità costruita in 31 anni di vita.

E allora si, che starei bene. Sarebbe la fine migliore del mondo, poter trovare un alibi per non fare ciò che più odio su questa terra: movimento.
Niente ha potuto la neve della settimana scorsa, niente hanno potuto i miei tentativi di dissuadere l'Amica A a scegliere un'altra cosa, un nuovo hobby, semplicemente rimandare.
Solo tu, fine del mondo, mi salverai.

Alla fine di questo anno nato storto, aggiustato in corso d'opera, oggi pieno di ciò che voglio.
And I feel fine.

Mi sono preparata a questo evento a cui nessuno crede, io per prima, facendo la cosa che da sempre mi rende nervosa, incerta, in bilico: cambiare colore dei capelli.
Per dimostrarti che non ti temo, fine del mondo: e non solo perchè quando arriverai, la cuffia lilla avrà già celato ogni dettaglio. E perchè le debolezze vanno sfidate.

Voglio pensarti così, guardarmi in faccia nell'attimo prima in cui sto per entrare in piscina per sfinirmi di pedalate e spegnere il segnale, chiudere i programmi, finire tutto.
Mi riconoscerai dall'outfit, neanche a dirlo.

E sappi che se arrivi alle 13.31, mi incazzo come una bestia.




lunedì 26 novembre 2012

Le difese che cedono

Ieri sera, quando sono arrivata, mi hai accolto come sempre, sempre con i tuoi piangetti alla porta, i tuoi strusciamenti sulle gambe, mille saltelli in aria a due zampe.
Senza sapere, neanche lontanamente immaginare, il motivo del mio arrivo in una domenica sera di novembre, nessuna festività in agguato.
Normale, per chi non conosce il concetto di tempo, ma solo di cose da fare nel tempo che c'è.

Ieri era il giorno del tuo quarto compleanno, ti dicevo ironicamente mentre ti coccolavo sul divano, domani te la fanno davvero la festa. Ti ho dato la buonanotte cercando di spiegarti cosa sarebbe successo il giorno dopo, sembravi capire, a volte sembravi semplicemente fregartene, mi guardavi come per dire, ma che cazzo stai dicendo.

E stamattina siamo partiti, io te e la mia clio grigio scassata, mi guardavi da dietro, nel trasportino, cercando di capire dove dovessimo mai andare di lunedì mattina, noi due che quando siamo in viaggio insieme di solito si parte a un'ora più decente, con un umore più decente. Allora ho cercato di farti scodinzolare, ti chiamavo in tutti i modi che conosco, con voce artigianalmente allegra.

Andiamo in clinica per farti togliere delle cisti che queste si, sono davvero ai confini della decenza; un intervento normale, niente di preoccupante, ci sarà un pò di post da fare a casa, ma poi starai bene.
Giuro nè.

Quando arriviamo in clinica hai già capito tutto, sento il guinzaglio tirare, gli odori ti salgono al naso come schegge e cominci a fare lo show dell'insofferente: non ti piacciono i dottori. Come ti capisco, pizzi mio.

Parlo con la veterinaria, parliamo di te, del prima, del dopo, di come ci dobbiamo muovere, che tipo di punti ti deve mettere. Sento le difese che cominciano a cedere, mi ero ripromessa di non fare scenate più o meno lacrimevoli, in questo preciso istante non so se riuscirò a tenermi fede.
Mentre mi parla da dietro il bancone, tu salti, come ieri sera, per vedere se sono ancora lì.
Difese che scricchiolano.

Mi dice, ti chiamo quando esce dalla sala, poi puoi venire a prenderlo stasera; eccolo, è arrivato.
Il momento tragico del saluto. Nascondo la faccia sotto il cappello di lana, mi avvicino per baciarti, e tu ti avvicini per un ultima coccolina appena sotto le orecchie, il tuo punto preferito, nella piega cartilaginosa tra orecchio e collo. Non fossi un cane senza neanche le palline, penserei sia il tuo punto G.

Io e le mie lacrime usciamo, non facciamo rumore, ci nascondiamo entrambe nella pioggia di questa mattina che descrive il mio umore, per niente decente.
Non ho neanche dovuto metterti la museruola, e questa cosa mi ha fatto sentire anche peggio. Perchè sei stato bravo e noi pensavamo di no.

Verso l'una mi ha chiamato la clinica, il tuo intervento è andato bene, sei tutto fasciato e ciondolante, ora ho una sola deadline in questa giornata interminabile: ore 19, tornare da te.
Entriamo con Annagi e la Cips, la vet ci porta la tua cartella, c'è scritto sopra Bertocchi Bignè. Annagi sorride orgogliosa, ora anche lei dà il suo cognome a qualcuno, ha detto.

Torna dopo pochi minuti con te, che come al solito entri per primo nelle stanze, tutto fasciato dal collo in giù, un piccolo torello vestito da mummia che ci scodinzola e struscia addosso.
Le mie difese scricchiolanti hanno ormai ceduto alla fine di questa giornata, cerco di tenerle a bada più che posso, le rimando a più tardi, quando saremo a casa io e te e potremo essere ciò che siamo e come vogliamo.

Appena siamo arrivati a casa, ti sei fiondato sul divano, sul tuo posto, sei stato lì al buio e da solo finchè non abbiamo apparecchiato a tavola, come se dovessi riprenderti del tempo per te. In casa tua.
Ti ho ammirato, in silenzio, per questo comportamento che noi umani forse non saremmo in grado di avere.

E ora, niente, siamo qui. Sdraiati sul divano, come ieri sera. Ti sei accucciato qui in cerca delle coccoline che abitano appena sotto il tuo orecchio. Quelle lì, che sono le tue. Alla tele danno una serie tv che vedo ma non guardo, osservo i punti neri delle cicatrici, le zone spelacchiate dalla lametta, il pelo che ti si gonfia per via della fasciatura grossa e ti fa somigliare a un gremlin. Ti parlo, ti prendo in giro.
Ti ascolto in sospiri profondi e piccoli gemiti, mentre ti abbandoni al riposo.

Sei stanco, e anche io, voglio solo stare qui così, sapere di esserci stata oggi, e sapere che tra poco starai bene.

  

lunedì 10 settembre 2012

Emergency, L'Aquila.

Partiamo di notte, da una stazione di metro della linea gialla di Milano, gialla come i lampioni che ci lasciamo alle spalle per entrare in autostrada, destinazione, L'Aquila.
Stiamo andando all'Incontro Nazionale dei volontari di Emergency, che quest'anno ha scelto questa città, per farcela vedere, a noi e a tutti quelli a cui la racconteremo una volta tornati, per non dimenticarla.
Perchè tutto lì si è fermato a una notte come questa in cui noi partiamo, ma TRE lontanissimi anni fa.

Cosa facevamo tre anni fa? Cosa eravamo tre anni fa? In questi giorni mi sono chiesta, ma loro, gli Aquilani, riescono a rispondere a questa domanda, o tutto è rimasto sospeso dal non sentire la differenza?

Quando mi sveglio sul pulman verde speranza che ci porta in Abruzzo, sono le 6.45 del mattino, e un sole rosso e tondo mi punta la faccia, non dormirò più. Scendo, insieme ad altre 100 persone e ci fiondiamo in un autogrill di 20 mq che ha fatto giornata in circa 20 minuti, si riparte, la prossima fermata è Piazza Duomo, a L'Aquila.

E all'inizio faccio fatica a soffermarmi solo sui nostri tendoni, sugli allestimenti, sulle persone che come noi si sono ritrovate lì per questi tre giorni dedicati a Emergency.
Sono le crepe ad attirare i miei sguardi, i ponteggi, le travi che sostengono finestre senza vetri, pezzi di muri e di case sparsi a terra, una città dilaniata dalla natura prima e dall'indifferenza dello stato poi.

E' difficile raccontare dell'Incontro senza parlare dell'Aquila e viceversa. E' difficile quando sono lì, dividere le due cose, anche solo nei pensieri. Poi mi rendo conto che questo era lo scopo, la grandezza dell'idea di volere essere qui, nell'anno in cui Emergency è diventata maggiorenne.

Attraverso un centro chiuso, fatto di saracinesche abbassate, portoni divelti da cui si intravede la vita lasciata lì, in attesa di una ricostruzione che non è ancora cominciata, e chissà quando. Ascolto racconti della vita provvisoria delle persone che sono state costrette ad abbandonare questi muri per trasferirsi in quelli finti fatti di legno/polistirolo/cartongesso, questa è la sequenza in cui sono state costruite le "nuove cittadine" logate ministero dell'interno.

L'Aquila è abbandonata. A se stessa. Ai suoi cittadini, ai suoi cani, ai suoi resti, orfani di mura e di stato.

E' una sensazione diversa da quella dell'Incontro dell'anno scorso, che mi pervade.
Percepisco la pesantezza di questo luogo antico, di ciò che trasuda ancora, dai bar abbandonati coi piattini sui banconi, ai panni stesi ad asciugare da tre anni. Come se fossero intrisi di lacrime mai asciugate.

Lo sento diverso perchè quest'anno ho sentito parlare Gino Strada dal vivo. Era la prima volta che lo vedevo, e ascoltarlo mi ha aperto una voragine allo stomaco. No, non era fame. Era qualcosa che ha a che fare con un processo simile a quello dell'immedesimazione: mi sono sentita coinvolta personalmente dalle sue parole, dal tono che gli dava, dalle espressioni del suo viso disgustato da ciò che ogni giorno è costretto a vedere. Dallo sguardo spietato con cui combatte la guerra.

In quel momento ho capito perchè era importante essere a L'Aquila, un posto dove la guerra esiste. E non solo perchè sostano i carri armati dei militari che controllano gli accessi alla zona rossa.
La guerra dell'Aquila è silenziosa come le sue strade, densa come i mobili accatastati fuori dalle sue case, senza scrupoli come chi la vuole affossare e nascondere al resto dell'Italia.

Emergency è venuta all'Aquila per dare un segno, perchè si ricominci a parlare di questa ferita mai guarita.

Conoscevo l'Abruzzo fino al 7 settembre solo per gli arrosticini. Ora so che l'Abruzzo è dolore, è forza, è voglia di ricominciare, è necessità che qualcuno, LO STATO, faccia qualcosa per la sua gente.
Che non permetta alle persone di abbandonare le proprie case.
Che si faccia garante CONTRO le speculazioni, e le corruzioni che silenziose accerchiano e dominano le mura di questa splendida città.

Emergency all'Aquila ha fatto ciò che cerca di fare ovunque si presenti: curare.
Esserci, è stato come curarla un pò, ridarle un battito nuovo, che sapeva di musica, di parole, di rumori, casse, microfoni, voci, passi.

Sta a noi, e con noi intendo noi italiani, noi stato, noi comunità e noi persone a cui potrebbe succedere domani, di non dimenticarla, non lasciarla in silenzio.

Mi sono portata via parecchio da questi tre giorni. Un bottino personale che mi rende orgogliosa di aver voluto esserci. Di esserci stata.

incontri con persone per cui provo profonda stima

Massimo Grimaldi, e la commozione per le sue parole timide ma piene di vero

Erri de Luca, e la sua pacca sulla mia spalla

formaggi, e salumi, e biscotti, e magliette di Emergency per le persone che amo e che mi aspettano a casa

quella sana invidia nel sentire parlare medici, infermieri e logisti della vita in missione per Emergency. quella che ti viene perchè capisci quanto sia grande ciò che fanno, e vorresti saperlo fare anche tu.
averne il coraggio, anche.

una donna afghana, che non poteva lavorare nel suo paese, prima di incontrare Emergency

Gino Strada, per essere ciò che è. Un uomo grande. con le mani grandi. e i pensieri grandi.

Fiorella Mannoia che non riesce a cominciare la sua canzone, perchè le lacrime non sono ancora finite, qui a L'Aquila.

Sono ancora panni stesi ad asciugare.



venerdì 3 agosto 2012

Tears (for fears?)

Odio le partenze. Tanto quanto amo l'aspetto itinerante di un qualsiasi tipo di viaggio, che sia partire per una vacanza o tornare da selvino, tanto odio la partenza in sè.
E soprattutto mi capita quando sono gli altri a partire.
Odio la fase cruciale, dove si annidano le mie cariche emotive più primitive, e che tengo più nascoste.
Odio il momento dei saluti.


E mi capita da sempre con due persone sole. Mia mamma e A. .
Dal 2010, sono diventate 3, Lore joined the list.
E' impossibile per me guardarli negli occhi in quel momento, perchè comunque ci provo, perchè mi dispiace non farlo, cerco di nascondere lacrime che non tornano indietro, calco occhiali da sole già stretti sul naso, naso che gocciola, tira sù, si muove a sinistra e a destra per depistare un'attività lacrimevole già in atto, ma soprattutto già sgamata.
Mi guardano con delle facce intenerite dal mio stato allucinato, e io mi odio per questo.
Per riuscire a rendere una partenza, l'inizio di un viaggio, una cosa bellissima, a renderla pesante.
Perchè quello che provo e che descrivo ora non rende giustizia al fatto in sè. Semplicemente perchè non è una tragedia.
Non ho particolari complessi di abbandono a cui agganciare l'alibi, mi viene solo e semplicemente da piangere.


Con la stessa intensità che se fosse la fine di una storia d'amore, come se fosse un post-litigio ferocissimo, come se fosse un addio per sempre.
E invece, sono solo alcuni giorni di lontananza. Provvisoria. Determinata. Definita.
Non conta.
Per noi del cancro, il sentimènto non ha confini temporali, quantitativi.


E' successo qualche settimana fa, e ancora non ci stavamo salutando. Lore mi è corso incontro, mi ha abbracciato, l'ho preso in piedi sulle mie gambe, e ha iniziato a saltarci sopra, e mi guardava negli occhi, e rideva.
E io gli piangevo in faccia, lacrime silenziose e sottili che mischiavo a un sorriso che mi veniva sgangherato, io stessa se mi fossi guardata allo specchio forse non mi sarei riconosciuta.
Pensavo che per dieci giorni mi sarebbe mancato quel momento esatto, quel singolo saltello con sorriso e pizzicotto sulle mie guance salate, e mille altri ancora. Il primo pensiero è stato "come faccio". Poi cerco di cambiare discorso, cambiare gioco, fare qualsiasi cosa che possa distogliere i miei occhi dal secernere acqua salata.


E poi ci siamo salutati, e io con gli occhiali scuri, e la voce rotta, e il muso che non mi vedevo ma che ho in testa perchè A. mi imita sempre, quando ridiamo di questa cosa, e allora io so come divento in quei momenti lì.
Perchè lei lo sa che sono così, pensa che sia esagerata, e lo sono, ma non me lo dice.
Appoggia il mio limite, lo accetta per ciò che è, anche a suo discapito.


E Lore stava in braccio a lei, e mi dicevano, ti chiamiamo tutti i giorni zia.
E io, gli occhiali, il muso, il naso, pezzi di me che mi deformano in un secondo, cancellano tutto ciò che riesco ad essere nella vita normale, mi fanno diventare un'aliena ai miei stessi occhi. Io accenno un sorriso artificiale,  di quelli che cerchi di fare in mezzo alle lacrime, uno squarcio storto di azzurro in un cielo grigio di tempesta.
Ecco, se dovessi definirmi in quel momento, mi definirei storta.
E vado, con lacrime.
Se aggiungiamo il tragitto in macchina verso casa, CIAO.
Se aggiungiamo la canzone giusta alla radio,


spegni la radio.


Partenze come mancanze. Mancanze che non si possono descrivere come non si possono spiegare certi movimenti di crosta terrestre.
Mancanze di pezzi di sè, quando voi non ci siete.
Mancanze di sguardi che sanno, e che tutto capiscono prima del detto.
Mancanze di parole e frasi sempre uguali, che sanno di vero, di voglia di condividere il tempo, di andare in un qualsiasi tipo di negozio il pomeriggio, di giocare col pongo sul terrazzo.
Di fare il thè la domenica pomeriggio con la nebbia fuori a solcare le strade di un paese che non è più il mio.


Di un "ziiia, dài, giuchiamo", di un "love, vieni a casa", di un generico e settimanale, "ma tu quando vieni dalla tua mamma?".






giovedì 12 luglio 2012

"che la retta è per chi ha fretta"

Mi ero sbagliata. ma di brutto. Anzi, come qualcuno direbbe, di bruttA (per sottolineare l'enfasi).
Pensavo che il passaggio fosse avvenuto 368 giorni fa, il crocevia dei miei 30 anni, l'ansia che ti caricano addosso pensando di farti auguri pieni zeppi di spiritosaggine. 
La tua idea della vita, di come è e come dovrebbe essere, di cosa non dovrebbe essere, l'avevo fatta coincidere con un numero.

Che a pensarci bene, è assurdo. 
Nr 1, perchè coi numeri non ho mai avuto un gran rapporto. Nr. 2, perchè non puoi catalizzare eventi creati dal destino e dalla tua volontà in un determinato tempo della tua vita. 
Non-sense.
Oggi lo so, oggi che è passato un anno da quei pensieri cerco di dargli uno spazio vero, reale. 
Pensieri che mi hanno spesso distolto da ciò che volevo, da ciò che mi dovevo. 
A. come al solito ci aveva visto lungo, che l'anno scorso a quest'ora me l'aveva scritto in un biglietto, uno dei suoi. Uno di quelli che ti riportano a galla. Che ti riportano all'essenza, alle cose vere, alla verità di uno sguardo, perchè questo ci basta, ci è sempre bastato.

Ho cercato di dare ai 30 anni questa idea di traguardo, che poi in realtà non mi ha mai portato da nessuna parte.
E ancora lo sapeva lei, quando mi diceva che noi tutti viviamo questi pezzi di tempo in prospettiva, senza renderci conto che il qui e ora fa sempre la differenza. Che lo ha fatto sempre, in tutte le cose che ci sono successe da quando ci conosciamo. Ed è vero. Tutte le cose belle che ho avuto, vissuto, di cui ho goduto, sono sempre state frutto di momenti totalmente estraniati dalla prospettiva. Amori, viaggi, lavoro, incontri, momenti, faccio una carrellata e penso: non li avevo cercati. Non c'erano, nella mia prospettiva. eppure, ci sono stati, e mi hanno riempito la vita. L'hanno resa ciò che è, che poi si sa, l'appetito vien mangiando.

La differenza la fa negli incontri tra persone, in un lavoro che ti scappa di mano, in un ribaltarsi di vita familiare che non avevi messo in conto, la vita è un qui e ora, e a parte le cose materiali, la prospettiva è solo un insieme di rette che vanno in un punto indefinito. Le tracci pensando che vadano chissà dove, e invece poi si perdono nel foglio. Neanche il profe di arte sapeva dove farle andare. E allora a cos'è servito il tempo che ci hai speso. 
Non serve, perchè la prospettiva ti illude, inganna l'occhio critico, e allora tu ti adagi sulla prospettiva, le credi alla prospettiva, e le cedi, stai lì e aspetti che le rette trovino il punto. e intanto ti perdi i pezzi.

non. avevi. messo. in conto. e allora perchè fossilizzarsi sui numeri.

quindi, niente. rileggerò il tuo biglietto, lo imparerò a memoria. 
come certi sms che ancora mi recito, per tenermi a galla, o semplicemente per darmi la carica.
come ascoltare Bolormaa e credere che sia tu, sempre tu, a cantarla. 
a ricordarmi che "ciò che rimane sospeso è perso".
a esserci, e restare.







sabato 2 giugno 2012

Bozze, e delle verità -mancate-

Ultimamente non trovo stimoli interessanti per scrivere su questo mio povero blog. nel senso che mi metto lì per scrivere e rimane una bozza salvata automaticamente ogni 5 secondi dopo ogni pausa di digitazione. Poi rileggo le 3-4 righe che ho scritto e mi sembra di non aver detto niente.
Scusate, ho un attimo il blocco dello scrittore.

Una bozza era salvata sulla parola punching-ball. Perchè un giorno mi sono fissata con questa parola, che io pronunciavo pungiboll e pensavo si scrivesse pungiball. ed è andata così: l'ho letta su twitter da non mi ricordo chi e mi è entrata in testa, mi succedeva anche da piccola, ripetevo una parola che mi suonava strana forse 30 volte e alla fine mi rendevo conto di averla spogliata del suo significato originale, era diventato altro. Un'altra parola, sconosciuta.
In un secondo mi sono resa conto di avere sempre pronunciato questa parola storpiandola, mi sono sentita una neofita delle parole inglesi utilizzate nella lingua italiana. Il secondo pensiero è stato, "sicuramente la maggior parte della gente non lo sa". Quindi mi era venuta questa cosa di scriverci un post, ma poi è rimasto lì. E lo scarso interesse che sento aleggiare nei vostri occhi leggenti in questo momento ne è la conferma.

Ok andiamo al secondo, di post mancato: sul gratta e vinci. Questo mi piaceva, l'avevo articolato bene, ma non mi convinceva, era bello pregno ma quando mi ritrovo a rileggere più di una volta un mezzo post vuol dire che non gira, e quindi meglio lasciarlo perdere. Lasciamolo in bozze, forse arriverà un post vero a salvare questi post mancati e toglierli dall'imbarazzo della noia in un sapiente pot-pourri di bozze assemblate.
Per farla breve, era una specie di testamento post vincita al gratta-e-vinci, facevo l'elenco di quanto e a chi avrei dato parte della vincita milionaria,stimata in un equo 50 milioni di euro. Solo che in finale di post rivelavo -once again, ma ripeto, è il mio segno che è disegnato così- la mia tendenza al sogno impossibile. Perchè io non ho mai giocato al gratta e vinci, non ho idea di come sistemare la schedina del lotto, ignoro le strategie dei "ritardatari" e dei "sistemi". Per me queste parole appartengono semplicemente ad altre sfere della vita, però amo fantasticare sul donare soldi che non ho.

E terzo, era il post mancato sulla verità. Perchè diciamolo, già dal titolo, sembrava abbastanza pesante. E mi annoiavo io a scriverlo, tanto che non è arrivato neanche alla seconda riga.
Sarebbe dovuto durare un 3 pagine di foglio protocollo, il tema d'attualità dell'esame di maturità di italiano, inserimenti filosofici, esempi di vita vissuta e citazioni letterarie, tra cui la mia preferita, che sta nel libro dei libri, Shantaram.

Il vero post è quello che ti si spara di getto, quello che le parole non ti si fermano a metà lingua, dove senti le dita spalmarsi sulla tastiera come su un pianoforte verticale quando avevo 7 anni.
Ci suono parole che a volte non vengono capite, che a volte non sono conosciute o non volute. Altre fanno sorridere, commuovere, pensare. Beh, wtf, come si dice.
A me far sbandare le dita qua e là mi piace, mi piace il tic accelerato dei tasti piccoli del portatile, come quando ci scrivevo le mail incazzose del lavoro, mi piace vedere due righe diventare trenta, e mi piace rileggere alla fine, una volta, correggere le virgole, togliere qualche punto di troppo, lasciare l'essenziale.
Uno stile di vita, e di verità. il mio.



"esiste una verità più profonda dell'esperienza, che sta al di là di ciò che vediamo, persino di ciò che sentiamo. E' una categoria di verità che separa ciò che è profondo da ciò che è soltanto razionale: la verità della percezione. Di solito questa categoria di verità ci fa sentire inermi, e capita che il prezzo da pagare per conoscerla, come il prezzo da pagare per conoscere l'amore, sia più alto di ciò che i nostri cuori sono in grado di tollerare. Non sempre la verità ci aiuta ad amare il mondo, ma senza dubbio c'impedisce di odiarlo."