sabato 4 agosto 2007

emozionalissimo Romagnoli

Quando le parole raggiungono luoghi segreti dell'anima che profumano di lacrime e magia.

"VANITY MIAO 2
Abbiamo tutti nove vite Gatto dopo gatto, città dopo città, da Bologna al Cairo ,da Beirut a Roma,
nasce una felpata consapevolezza: nulla finisce mai davvero
DI GABRIELE ROMAGNOLI
Non amo il pugilato. Detesto le corride. L'unica volta in cui sono andato a pesca sull’oceano tutto quel che ho preso è stato sonno. Non so se metterò al mondo figli e nipoti, se lo facessi escludo li possa abbattere il complesso di portare il mio cognome ma non essere me. Non ho ancora trovato «un posto pulito e illuminato bene» in cui fermarmi. Sono praticamente certo che non farò il check-out sparandomi una fucilata perché non so usare le armi, nemmeno per l’addio. Eppure, una cosa in comune l’abbiamo, io e Ernest Hemingway: i gatti.
I suoi hanno appena conquistato il diritto a restare inquilini della villa di Key West. I miei sono sparsi nella memoria e nel mondo. Hanno segnato con la loro presenza le tappe di una vita: Bologna, Torino, Il Cairo, Beirut, Roma. Domenico, Priscilla, Qualcuno, You broke my heart, Otta. E ultima venne Liza («a te che sei il mio presente, a te la mia mente»). Li richiamo tutti qui adesso per metterli in competizione con quelli di Hemingway. Per me non c’è gara, ma non posso essere obiettivo, d’altronde non ho neppure mai considerato un capolavoro Per chi suona la campana. E comunque.
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Domenico. Persiano, nero. Con gli occhi azzurri. Scelto da un giovane amico che poteva prendersi tutto quel che voleva e poi disamorarsene in fretta. Lo chiamò così in onore di Marocchino, ala destra del Bologna che gettava scompiglio sulla fascia e nella propria vita. Domenico il gatto si rifugiava nel camino e starnutiva ossessivamente, alzando nubi di fuliggine che lo rendevano ancora più nero. Quando usciva, le sue zampe erano pronte per fornire le impronte digitali che nessuno gli aveva richiesto. Disamorò un intero salotto e fu esiliato nella stanza degli ospiti, dove lo accolsi. Al ritorno da una vacanza non lo trovai più. Era stato soppresso. Credo per aver starnutito troppa fuliggine.
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Priscilla. Soriana, tigrata. Curioso dono di nozze, arrivò da Montecatini aggrappata al volante di un’auto che cercava di guidare per andare responsabilmente incontro al suo destino. Simpatizzò particolarmente con un altro dono di nozze: una vecchia macchina per scrivere. Io battevo un tasto, lei alzava la zampa per cercare di afferrarlo. Mai terminato un racconto, a quel tempo. Mai avuto rimpianti per questo. Le scattai una foto in cui balzava dal divano. Nell’immagine due zampe sono ancora sul bracciolo, le altre due librate in aria. È perfettamente sospesa La mandai alla rivista Tutto gatto, attribuendola alla sua padrona. Fu eletta «gatto del mese». Quando il giornale con la foto pubblicata arrivò nella buca delle lettere la nostra casa era vuota.

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Qualcuno. American shorthair; rosso. Poi, per espiare le fini e gli abbandoni mi rinchiusi nei 24 metri quadrati di una soffitta torinese. Il mio vicino di destra era uno spacciatore. A sinistra, un transessuale. Sopra il letto c’era un abbaino. Non lo chiudevo mai, mi addormentavo vestito guardando il cielo. Una notte mi svegliò un rumore sospetto. Stupidamente dissi: «C’è qualcuno?» C’era Qualcuno, un gatto che chiamai così. Non entrò mai in «casa». Veniva all’abbaino e mi guardava dormire. Una notte in cui persi la strada di casa la mia avvocatessa mi ritrovò nel posto meno probabile. Aveva in braccio Qualcuno. Disse che era stato lui a guidarla fin lì. A quel punto dovevo andare lontano.

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You broke my heart. Soriano, bianco e nero. Nei vicoli del Cairo, alla fine, smetti di avere pietà anche per gli uomini. Ma il miagolio straziato di un cucciolo di gatto impone soccorso. Questo veniva da una discarica condominiale. Spezzava il cuore, di qui il conseguente battesimo. Lo portai al quattordicesimo piano di un palazzo truccato da grattacielo di Manhattan, gli riempii una ciotola, lo mostrai orgoglioso alla futura madre adottiva. Il cucciolo era inappetente. Lei lo guardò e disse: “Ehi, bevistocazzodilatte” Ritrovai la madre naturale e glielo riconsegnai, it broke my heart, a little.
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Otta. Angora, crema. Mai chiedere l’ora a una donna. Ha, per ogni cosa, il suo tempo. La stessa che non aveva pazienza per la cena di You broke my heart divenne la madre perfetta di Otta. Chi legge questo giornale dal tempo in cui ci scrivo sa che sto parlando di un gatto libanese, uno spaventato guerriero comprato in cartoleria e cresciuto sfidando i muezzin all’alba (loro a gridare, lui a miagolare e vediamo Dio chi ascolta). A Beirut scoppiano troppo spesso le guerre, qualcuno va in esilio, qualcun altro a dormire con gli angeli. Otta, la seconda che ho detto. Breve, la sua vita felice.
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Liza. Soriana, tigrata II. Uno dei più begli articoli pubblicati negli ultimi anni dal New Yorker parlava di un pesciolino rosso, della sua morte e di come farla affrontare (o nasconderla) alla bambina a cui teneva compagnia. Ma se hai più di quarant’anni nessuno ti viene a proteggere dal dolore delle perdite né ti spiega come compensarle. E' un tuo problema: puoi decidere di non voler soffrire mai più e non avvicinarti a nessun nuovo affetto. Puoi ributtartici immediatamente, salvo farti prendere dal rimorso perché non stai onorando la memoria con la celebrazione dell’assenza. Resti paralizzato, in quel che per te è un non tempo, ma intorno scorre, cancellando possibilità. Poi un giorno, al ritorno da un viaggio, un Raggio di Luce ti attende circondando un gatto, minuscolo e agitato: Liza. Apri a caso una pagina del tuo libro preferito, che non è di Hemingway ma di Steinbeck, La valle dell’Eden, e il primo nome femminile diventa il suo. A questo punto diventa difficile scrivere questo articolo perché Liza è un caporedattore ansioso, sta sulla mia spalla e guarda affascinata le lettere che appaiono sullo schermo (è l’evoluzione del tempo in cui Priscilla inseguiva il tasto della macchina per scrivere). E miagola. Impossibile liberarsene. Liza è la contraddizione dell’idea per cui i gatti sono animali indipendenti. Impensabile convincerla che la vita continua anche a dieci centimetri da me. La scrollo e lei riparte: pavimento-divano-stampante-scrivania-balzo verso il collo. Giù. E lei riparte: pavimento-divano-stampante-scrivania-balzo verso il collo. Posso respingerla cento volte e lei tornerà cento e una. Stoica o stolida, non so. Vuole esserci ed essere amata. «Amor che a nullo amato amar perdona» è un verso che ha fatto danni. Non è che si debbano ricambiare tutti i molestatori che mandano dieci sms al giorno, ma Liza non scrive "ho bisogno di te;:)", lo dimostra, disarmata e disarmante. E' una specie di gol a tempo scaduto, la sensazione a cui avevi rinunciato, impacchettando la bandiera del cuore e voltando le spalle al gioco. Arriva così tardi che non c’è più paura di quel che potrebbe ancora succedere.
La guardo camminare sul cornicione e, pur sapendo che le ho tagliato le unghie, non ho la paura per la sua sorte che avevo per chi l’ha preceduta. Il timore e i sogni premonitori sono profezie che si autoavverano. Lascio che prenda le misure al proprio rischio, continuo a scrivere, a leggere, a vivere senza tormentarmi con il pensiero che possa finire. E' già finita, ed è sempre ricominciata, abbiamo tutti nove vite, ma siamo reincarnazioni immemori. Qualcuno ci ha spezzato il cuore, uno è andato in fumo, uno in cielo e poi un giorno, gatto dopo gatto (se è di questo che sto parlando), si apre uno spiraglio ed entra felpata una consapevolezza. Liza non è la cura: non rimedia alle case svuotate, ai ricordi insostenibili, alle rinunce e al dolore. E' molto di più: un’altra occasione. La sesta vita, ma foss’anche la nona: avanti! Tanto non finisce davvero. Lo insegna lei. Si precipita e si riparte: pavimento-divano-stampante-scrivania-balzo verso il collo, verso un Raggio di Luce. Il vuoto, caro Hemingway, può attendere, sempre. "
VANITYFAIR 02082007